COME NACQUERO I « PROMESSI SPOSI »
I. Lo stato d'animo del Manzoni nella primavera del 1821.
La prima redazione di quelli che saranno poi i Promessi Sposi, iniziata, come si è detto, nell'aprile J821, nacque con ogni probabilità da un particolare stato d'animo, determinato dagli avvenimenti contemporanei.
Dalle vicende della società e dell'umanità, e in primo luogo di quella che lo circondava, il Manzoni non voleva e non sapeva distrarre lo sguardo: sempre pronto a sperare ed a salutare l'avvento di una condizione politica, e quindi morale, più giusta, e sempre deluso. I fatti lo avevano indotto ancora una volta in una condizione di dolore profondo: questa stimolò la sua fantasia e la sua volontà creatrice.
Quale dovette essere lo stato d'animo del Manzoni in quei giorni possiamo comprendere, oltre che dalle sue stesse lettere dell'epoca, dal confronto tra le luminose speranze che egli aveva espresse nell'ode Marzo 1821, e l'esito doloroso dell'impresa tentata dai liberali piemontesi e lombardi per giungere all'unità e alla libertà.
Il Manzoni era stato deluso, all'inizio del secolo, dalle idee democratiche, che avevano pur promesso un mondo migliore; era stato deluso nel 1814, quando gli austriaci avevano promesso libertà e progresso e poi tradito il giuramento, e ai nuova nel 1815 quando l'azione del Murat era stata infranta. Ancora una volta nel 1821, con la repressione dei moti liberali, la dura legge della forza rivelava la sua presenza e prevalenza nel mondo. Si dovette ripresentare allora probabilmente allo scrittore, nella delusione politica, l'idea che veramente soltanto la religione, rimuovendo le cause intime dei mali dal profondo — non per nulla egli l'aveva definita nelle Osservazioni « quanto di più serio e più intimo abbia l'uomo » — potesse avviare i viventi per nuove vie, potesse indurli a creare ciascuno per se stesso una sorte migliore, e forse un giorno per tutti un mondo rinnovato e felice. Anche questo lo scrittore aveva già detto due anni prima, nelle Osservazioni sulla morale cattolica: che la morale cattolica « praticata da tutti condurrebbe l'umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire sulla terra ». Egli pensò ad un'opera che rappresentasse in forma narrativa, in modi largamente in fendibili, la dura condizione del mondo, e ciò che potrebbe mutarla.
Nello spirito del Manzoni stava divenendo sempre più forte, come abbiamo veduto nell’Adelchi a proposito di Desiderio e di Ermengarda, il sentimento dell'uguaglianza di tutti gli uomini. Era questo un fatto realissimo, ma ignorato nella storia e nella società: le costituzioni politiche si erano succedute nei secoli, non soltanto dimenticando l'uguaglianza, ma fondandosi proprio sull’ineguaglianza. Questa constatazione creava nel poeta il sentimento di un diritto offeso.
Coloro che più soffrono per essere il principio dell'uguaglianza ignorato nella società sono gli umili. Eppure sono essi proprio coloro che meglio applicano l'insegnamento evangelico. Nelle Osservazioni sulla morale cattolica il Manzoni aveva polemizzato vibratamente contro coloro che, rifiutando per sé la morale cattolica, affermavano quasi con spregio « che convien lasciarla al popolo ». Ma questo costituisce « i nove decimi del genere umano ». A questi nove decimi si volgeva il suo interesse e la sua simpatia.
Per il fatto di conoscere con chiarezza quella morale « le donnicciole cristiane » sono superiori ai saggi del gentilesimo. E proprio « donnicciuola » (nel Nome di Maria aveva parlato di « femminetta ») era chiamata Lucia nel periodo finale della prima stesura del romanzo, dopo che il Manzoni le aveva fatto esporre la conclusione della storia. Si vedeva dunque, nell'opera di pensiero, come in quella d'arte, un'inclinazione a riprendere sì la contrapposizione degli oppressi agli oppressori, identificando tuttavia chiaramente gli oppressi negli umili.
Già nei più lontani Inni Sacri, dal 1812 al 1814, il Manzoni aveva distinto fra gli uomini i potenti e gli « ignoti », più vicini questi ultimi a Dio. Nelle due tragedie l'attenzione del Manzoni sembrava essersi allontanata dal mondo degli umili: il suo occhio si era fissato con estremo coraggio sull'umanità, ma soltanto sul duro mondo dei potenti. Questo era veduto nell'atto di opprimere alcune creature buone; ma si trattava di esseri leali, pensosi, innocenti che la sorte aveva collocato in esso: il Carmagnola, Adelchi ed Ermengarda; anche se dobbiamo tener conto degli spunti sociali che il coro « Dagli atri muscosi... » conteneva prima che la censura lo mutilasse: i potenti franchi e longobardi erano veduti nell'atto di unirsi fra di loro per dominare la « lurida plebe ».
Nel nuovo romanzo il Manzoni volle tornare al motivo sociale degli Inni sacri, non a caso ripreso con grande evidenza nell'ultimo di essi, la Pentecoste (1822), ove il frutto della redenzione è identificato soprattutto nell'innalzamento degli umili al cielo da parte di Cristo, che « a tutti i figli d'Eva » pensò nel suo dolore.
Il Manzoni concepì dunque un romanzo che procedesse da una visione religiosa della vita, e che seguisse nella grande scena della realtà la sorte degli oppressi, identificati principalmente negli umili.
Dalle vicende della società e dell'umanità, e in primo luogo di quella che lo circondava, il Manzoni non voleva e non sapeva distrarre lo sguardo: sempre pronto a sperare ed a salutare l'avvento di una condizione politica, e quindi morale, più giusta, e sempre deluso. I fatti lo avevano indotto ancora una volta in una condizione di dolore profondo: questa stimolò la sua fantasia e la sua volontà creatrice.
Quale dovette essere lo stato d'animo del Manzoni in quei giorni possiamo comprendere, oltre che dalle sue stesse lettere dell'epoca, dal confronto tra le luminose speranze che egli aveva espresse nell'ode Marzo 1821, e l'esito doloroso dell'impresa tentata dai liberali piemontesi e lombardi per giungere all'unità e alla libertà.
Il Manzoni era stato deluso, all'inizio del secolo, dalle idee democratiche, che avevano pur promesso un mondo migliore; era stato deluso nel 1814, quando gli austriaci avevano promesso libertà e progresso e poi tradito il giuramento, e ai nuova nel 1815 quando l'azione del Murat era stata infranta. Ancora una volta nel 1821, con la repressione dei moti liberali, la dura legge della forza rivelava la sua presenza e prevalenza nel mondo. Si dovette ripresentare allora probabilmente allo scrittore, nella delusione politica, l'idea che veramente soltanto la religione, rimuovendo le cause intime dei mali dal profondo — non per nulla egli l'aveva definita nelle Osservazioni « quanto di più serio e più intimo abbia l'uomo » — potesse avviare i viventi per nuove vie, potesse indurli a creare ciascuno per se stesso una sorte migliore, e forse un giorno per tutti un mondo rinnovato e felice. Anche questo lo scrittore aveva già detto due anni prima, nelle Osservazioni sulla morale cattolica: che la morale cattolica « praticata da tutti condurrebbe l'umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire sulla terra ». Egli pensò ad un'opera che rappresentasse in forma narrativa, in modi largamente in fendibili, la dura condizione del mondo, e ciò che potrebbe mutarla.
Nello spirito del Manzoni stava divenendo sempre più forte, come abbiamo veduto nell’Adelchi a proposito di Desiderio e di Ermengarda, il sentimento dell'uguaglianza di tutti gli uomini. Era questo un fatto realissimo, ma ignorato nella storia e nella società: le costituzioni politiche si erano succedute nei secoli, non soltanto dimenticando l'uguaglianza, ma fondandosi proprio sull’ineguaglianza. Questa constatazione creava nel poeta il sentimento di un diritto offeso.
Coloro che più soffrono per essere il principio dell'uguaglianza ignorato nella società sono gli umili. Eppure sono essi proprio coloro che meglio applicano l'insegnamento evangelico. Nelle Osservazioni sulla morale cattolica il Manzoni aveva polemizzato vibratamente contro coloro che, rifiutando per sé la morale cattolica, affermavano quasi con spregio « che convien lasciarla al popolo ». Ma questo costituisce « i nove decimi del genere umano ». A questi nove decimi si volgeva il suo interesse e la sua simpatia.
Per il fatto di conoscere con chiarezza quella morale « le donnicciole cristiane » sono superiori ai saggi del gentilesimo. E proprio « donnicciuola » (nel Nome di Maria aveva parlato di « femminetta ») era chiamata Lucia nel periodo finale della prima stesura del romanzo, dopo che il Manzoni le aveva fatto esporre la conclusione della storia. Si vedeva dunque, nell'opera di pensiero, come in quella d'arte, un'inclinazione a riprendere sì la contrapposizione degli oppressi agli oppressori, identificando tuttavia chiaramente gli oppressi negli umili.
Già nei più lontani Inni Sacri, dal 1812 al 1814, il Manzoni aveva distinto fra gli uomini i potenti e gli « ignoti », più vicini questi ultimi a Dio. Nelle due tragedie l'attenzione del Manzoni sembrava essersi allontanata dal mondo degli umili: il suo occhio si era fissato con estremo coraggio sull'umanità, ma soltanto sul duro mondo dei potenti. Questo era veduto nell'atto di opprimere alcune creature buone; ma si trattava di esseri leali, pensosi, innocenti che la sorte aveva collocato in esso: il Carmagnola, Adelchi ed Ermengarda; anche se dobbiamo tener conto degli spunti sociali che il coro « Dagli atri muscosi... » conteneva prima che la censura lo mutilasse: i potenti franchi e longobardi erano veduti nell'atto di unirsi fra di loro per dominare la « lurida plebe ».
Nel nuovo romanzo il Manzoni volle tornare al motivo sociale degli Inni sacri, non a caso ripreso con grande evidenza nell'ultimo di essi, la Pentecoste (1822), ove il frutto della redenzione è identificato soprattutto nell'innalzamento degli umili al cielo da parte di Cristo, che « a tutti i figli d'Eva » pensò nel suo dolore.
Il Manzoni concepì dunque un romanzo che procedesse da una visione religiosa della vita, e che seguisse nella grande scena della realtà la sorte degli oppressi, identificati principalmente negli umili.